1 - Introduzione.

Parlando del mio interesse per le mura megalitiche, e in particolare di quelle cosiddette “poligonali”, con un amico che conosce molto bene il Giappone ho avuto la sorpresa di sentirmi dire che il Giappone è pieno di opere del genere. Sono andato su internet per documentarmi e ho trovato una quantità di muri che potevano corrispondere alla definizione di opere poligonali, ma in molti casi era possibile che si trattasse di costruzioni moderne. E se fosse stato tutto moderno? So che i Giapponesi sono appassionati delle imitazioni, ma non era possibile che fossero tutte imitazioni: da qualche parte dovevano pur aver preso dei modelli. Così ho deciso di compiere un breve viaggio nel Paese del Sol levante e visitare Tokyo e dintorni. Le tappe principali sarebbero state i giardini imperiali orientali di Tokyo e i santuari di Nikko e Kamakura. Lo scopo che mi ero prefisso era di verificare se la tecnica costruttiva per erigere questo tipo di muri a secco fosse la stessa che avevo trovato in Italia, Grecia, Perù e Bolivia. Tale tecnica comporta che sia i lati delle facce, che hanno una forma poligonale irregolare, sia gli angoli formati dai lati adiacenti abbiano una ben precisa misura, in modo che ogni blocco messo in opera occupi uno spazio ben determinato e il contatto tra i vari elementi sia perfettamente chiuso. Si poneva il problema se si trattasse di una semplice coincidenza, e quindi se la tecnica fosse stata applicata da popolazioni diverse, ciascuna indipendentemente dalle altre, o se al contrario i muri in questione fossero opera di una stessa popolazione. Il modo di accertarlo c’era e consisteva nel confrontare l’unità di misura utilizzata per misurare la lunghezza dei lati dei poligoni: nei Paesi sopra elencati avevo accertato che era stata usata la stessa unità di misura, di 1,536 cm, che ho chiamato “dito pelasgico” (Mortari, 2012a).

C’era infine un’altra verifica da compiere: se, oltre alla tecnica dell’opera poligonale, fossero state applicate anche altre tecniche, in analogia con quanto è avvenuto nelle altre aree in cui sono stati riconosciuti complessivamente i seguenti sei tipi principali di lavorazione.

Primo tipo o “tipo delle pietre grezze”: le pietre sono accatastate con la loro forma naturale in modo da lasciare minimi spazi vuoti. Ne vediamo un esempio nella Figura 1, che ritrae un muro di sostegno ad Amelia.

Secondo tipo o “tipo delle pietre grezze selezionate”: vengono scelte pietre con una faccia piana, che viene disposta verso l’esterno del muro, così che la parete finale non abbia sporgenze importanti. Gli spazi vuoti vengono chiusi con pietre più piccole. Esempi sono le mura di Roselle (Figura 2) e Borg in-Nadur a Malta (Figura 3).

Terzo tipo o “tipo delle pietre sgrezzate”: la tecnica è simile a quella precedente, ma per ogni singola pietra i bordi della faccia esposta all’esterno vengono trattati con uno scalpello in modo da ridurre molto gli spazi lasciati vuoti intorno. Dato che nella evoluzione dei materiali impiegati il bronzo è quello che per primo ha consentito di lavorare intensamente le pietre anche le più dure, si deve inferire che la tecnica del terzo tipo è frutto dell’invenzione di questa lega. A volte non risulta facile porre un limite tra un terzo e un secondo tipo giacché non sempre si può essere sicuri che sia avvenuto uno sgrezzamento dei bordi tramite percussione di un utensile metallico. Appartengono a questa classe i muri che si trovano: presso il Templo do Sol a Machu Picchu in Perù (Figura 4), nella parte nord-occidentale della stessa località (Figura 5), a Ferentino (Figura 6), a Cori (Figure 7 e 8) e a Norba (Figura 9). Nell’ultimo caso si può notare un effetto della nuova tecnica, che consiste in una riduzione, fino all’assenza, delle inzeppature.

Quarto tipo o “primo tipo poligonale”: le pietre vengono ancora lavorate a percussione per mezzo di strumenti metallici, ma la lavorazione è molto più accurata. Si rendono piane non solo la faccia a vista ma anche altre facce che partono dai bordi di quella principale e che vanno a combaciare perfettamente con le facce delle pietre adiacenti. I bordi della faccia a vista sono generalmente rettilinei, definiscono un poligono irregolare e non hanno un orientamento preferenziale. Sono stati scelti, come esempi, tratti delle mura di Amelia (Figura 10), Palestrina (Figura 11) e Pisac (Perù) (Figura 12). Nella Figura 13, che si riferisce a Cori, si può fare un’osservazione abbastanza rara: appaiono impronte lasciate sulle pietre da uno scalpello; la larghezza della lama risulta di poco più di 3,0 cm. Questo valore è due volte quello di 1,536, che è stato trovato essere l’unità di misura utilizzata per determinare lunghezze di lati dei poligoni (Mortari, 2012a).

Quinto tipo o “tipo delle pietre tendenzialmente squadrate”, che rappresenta un “tardo poligonale” o “poligonale evoluto”: le pietre sono ancora lavorate a percussione. Si tratta di una derivazione dal tipo precedente, in cui col tempo si tende a ridurre il numero dei lati delle facce a vista e assumono una frequenza via via maggiore i poligoni quadrilateri, gli angoli retti, o quasi, e allineamenti orizzontali. Possiamo ascrivere a questa classe il muro di Pyrgi (Figura 14), in cui l’evoluzione è al suo inizio, e, come casi più evoluti, una parte delle mura di Spoleto (Figura 15), il tempio di Hagar Qim, a Malta nella Figura 16 e il muro di Micene adiacente alla famosa Porta dei Leoni (Figura 17); negli ultimi due esempi gli angoli tendono ad essere tutti retti.

Sesto tipo o “tipo delle pietre tagliate a squadro”. Ho evitato di chiamarlo “tipo delle pietre squadrate” per non generare confusione con i casi più evoluti del tipo precedente, in cui gli elementi hanno uguale forma ma sono stati lavorati con martello e scalpello; in questo tipo invece le pietre sono tagliate, molto probabilmente con una sega. I tagli avvengono in maniera tale che l’angolo tra le varie facce del singolo blocco sia retto. Ne risultano facce rettangolari, come si vede nella Figura 18, in cui sono mostrati i primi corsi di un muro appartenente a un tempio a Cosa (Mortari, 2014). Gli spigoli che si ottengono sono molto netti, senza slabbrature, come al contrario avveniva generalmente nella fase più avanzata del quinto tipo.

2 - Tokyo

Mi sono subito reso conto che i Giapponesi amano costruire muri in opera poligonale: l’occasione si è presentata quando mi hanno trasferito dall’aeroporto all’albergo: appena sceso dal pullman mi sono trovato di fronte, a darmi il benvenuto, un muro contemporaneo di questo genere (Figura 19), che ha un disegno caratteristico del quinto tipo. Quando in seguito mi sono recato nel parco di Ueno, fuori da un antico tempio buddhista mi aspettava un muro simile a quelli del quarto tipo (Figura 20). In entrambi i casi è evidente che l’analogia non è stretta ed è limitata al disegno dei bordi delle facce in quanto che non si tratta di muri a secco.

2.1 – Giardini imperiali

Il primo sito visitato è stato quello dei giardini imperiali di Tokyo, o meglio la parte, sorvegliata, che è tenuta aperta tutti i giorni al pubblico ed occupa un’isola artificiale posta a nord-est della residenza dell’imperatore (Figura 21). Una sua mappa dettagliata è in Figura 22; in senso est-ovest l’isola misura una larghezza massima di quasi 700 m, mentre in senso nord-sud la lunghezza è di quasi 800 m. Il luogo è sotto il controllo di poliziotti che per ragioni di sicurezza non ammettono che si prendano misure di alcun genere o si cammini fuori dai percorsi consentiti; sono intervenuti due volte: la prima volta perché cercavo di fotografare un muro da una posizione interdetta, la seconda perché mi hanno visto con un metro in mano. Per questa ragione i dati che ho potuto mettere insieme in questo parco non sono così numerosi come avrei voluto.

Sono entrato nei giardini imperiali dalla Otemon (Figura 23), la porta che si apre nella zona più orientale, indicata con il n. 1 nella mappa di figura 22. Prima di entrare, sulla destra della porta si possono osservare (Figura 24) due pareti che a prima vista appaiono come primo poligonale, ma che a una più attenta osservazione risultano essere del poligonale tardo per la frequenza di elementi quadrangolari; vi è anche una terza parete, di aspetto molto diverso, che indica un rifacimento avvenuto probabilmente dopo i bombardamenti dell’ultima guerra.

Passata la porta, si entra in un cortile, in fondo al quale vi è una parete ancora del quinto tipo (Figure 25 e 26). Sulla destra del cortile si apre una seconda porta (Figura 27), e a destra di essa si trova un altro muro dello stesso genere (Figura 28). Qui sono state compiute misure su due pietre. La prima (Figura 29) è risultata di 92,1 cm per il lato maggiore e 54,9 per quello minore, che corrispondono a 59,96 e 35,74 volte l’unità di misura che ho chiamato “dito pelasgico”, (che indicherò brevemente con dp) di 1,536 cm, riscontrata nell’area del Mediterraneo e in Sudamerica (Mortari 2012b, 2013a, 2013b). La seconda pietra (Figura 30) ha i due lati inferiori di 53,0 e 11,9 cm, pari a 34,51 e 7,75 dp.

Superando la seconda porta, sulla sinistra segue una breve parete (ripresa da vicino nella Figura 31), sulla quale sono riuscito a effettuare misure su due pietre. La prima pietra è in Figura 32; il suo lato inferiore misura 80,6 ÷ 80,7 cm (52,47 ÷ 52,54 dp). La seconda pietra è in Figura 33, e il suo lato inferiore è di 63,4 cm (41,28 dp). La stessa parete è ripresa anche da lontano (Figura 34). Volevo riprenderla di fronte, ma nell’avvicinarmi ero entrato in una zona proibita e per questo sono stato richiamato.

150 m a ovest della Otemon si incontra una seconda doppia porta, di cui rimangono solo le pietre di base; essa corrisponde al sito n. 4 della mappa di figura 22. Della prima apertura la Figura 35 illustra lo stipite di destra. A questa si allaccia la parete esterna di Figura 36; la Figura 37 ne è un dettaglio e ne mostra il modo costruttivo, che è del quinto tipo. Nella Figura 38 è visibile lo stipite di sinistra. Della seconda apertura, orientata ortogonalmente rispetto alla prima, la Figura 39 rappresenta lo stipite di destra (ripresa da est verso ovest), mentre nella Figura 40 c’è la parete contigua rivolta verso sud, e nella Figura 41 la parete contigua a quest’ultima (rivolta a ovest). Lo stipite sinistro compare nella parte destra della Figura 42. In Figura 43 è rappresentato un dettaglio della figura 39, con una pietra, al centro, adatta ad una misura: il suo lato inferiore è di 55,3 cm, pari a 36,00 dp. Nelle varie pietre possiamo osservare i colpi inferti per livellare la superficie: essi sono spesso riuniti lungo brevi, precisi allineamenti e suggeriscono che siano stati prodotti da una punta su cui veniva battuto un martello piuttosto che direttamente da un martello dotato di una terminazione a punta.

Per l’ultima fotografia del dettaglio dello stipite destro avevo messo contro la parete il mio metro, e mentre facevo lo scatto si è avvicinata una donna poliziotto per sapere che cosa stessi facendo. Si è tranquillizzata quando ho detto che mi serviva quel riferimento per avere un’idea delle dimensioni delle pietre. Prima della misurazione mi ero guardato attorno e non avevo visto nessuno. Mi è venuto da pensare che dopo il primo richiamo forse li ho messi in allarme e mi hanno voluto tenere d’occhio per un po’; questa esperienza mi ha consigliato di essere più prudente. Dovevo tener in conto anche un frequente controllo, più insidioso, operato in bicicletta.

Lo stipite destro è ripreso ancora nella Figura 44 per mostrare sullo sfondo una parete oltre il punto 6 della mappa e mettere in risalto la vicinanza di due stili alquanto diversi. Oltre la doppia porta da poco descritta, lo spazio si allarga leggermente, e sulla destra si estende la parete di un muro che appartiene ad un quinto tipo molto avanzato, interrotto da un varco (Figura 45). Il muro, che ha un andamento nord-sud, è costituito da pietre il cui contorno si approssima molto al rettangolo, mentre la parete che è contigua alla sua parte settentrionale è di un quinto tipo meno evoluto (Figura 46), analogo a quello che abbiamo già visto nelle figure 34 e 41. Da nord a sud il muro principale è illustrato nelle Figure 47 ÷ 50; a sud del punto 6 della mappa esso è riprodotto nella Figura 51.

Nel punto 6 possiamo oltrepassare il muro, che costituisce una seconda barriera difensiva, più interna, dell’isola, attraverso la porta Nakanomon, cui segue un percorso in salita. Superata dunque la porta, che compare nelle Figure 52 e 53, di fronte ad essa si presenta una parete che a un primo sguardo sembrerebbe appartenere alla seconda classe (Figure 54 e 55), ma ad una osservazione più attenta appare costituita da blocchi che in passato dovevano far parte di un muro molto probabilmente del quinto tipo. Infatti, la continuazione di questa parete, dopo che ha piegato ad angolo retto, si mostra del quinto tipo (Figura 56) e termina poi dove si apre il varco della seconda porta. Di fronte alla parete di figura 56 si trova una parete dello stesso tipo (Figura 57), che in fondo alla salita piega per collegarsi alla seconda porta e diventa di un quinto tipo molto evoluto (Figura 58). Già qui si intravede lo stipite sinistro della porta, che appare meglio nella Figura 59, mentre lo stipite destro è rappresentato nella Figura 60. Entrambi gli stipiti portano i segni di un pronunciato sfaldamento delle pietre, che non esito ad attribuire ad un incendio localizzato e prolungato.

Oltre la porta del punto 9 la superficie del terreno è spianata. Al n. 17 della mappa c’è una piccola costruzione, detta “Ishimuro” (Figura 61), che si ritiene potesse essere un deposito di approvvigionamenti per il castello che si ergeva a breve distanza da qui; essa è formata da pietre perfettamente squadrate e appartiene al sesto tipo: basta osservare gli spigoli per accorgersi che sono perfetti, come solo un taglio può produrre. La Figura 62 ci mostra che queste pietre hanno avuto diversi trattamenti nella faccia a vista: dall’alto vediamo che una superficie è stata tagliata, due sono finemente martellate e altre due martellate grossolanamente; inoltre possiamo notare che due delle pietre finemente martellate presentano delle “maniglie”. Una terza pietra con maniglia è visibile sotto il cartello nella Figura 63, ma qui la maniglia, anziché trovarsi nella parte inferiore del blocco, come è la norma, si trova nella parte superiore. I dettagli mostrati, insieme al fatto che le tre pietre con maniglia sono state messe come in disparte, suggeriscono che il muro sia stato eretto utilizzando pietre riciclate.

La parte meglio conservata dell’opera è la metà di sinistra; in essa si può notare che la seconda e la quarta fila dal basso tendono ad avere la medesima altezza; in particolare, nella seconda fila la prima pietra a sinistra ha un’altezza costante di 51,4 cm (corrispondenti a 33,46 dp) mentre la terza pietra da sinistra della quarta fila ha un’altezza variabile tra 51,4 e 51,5 cm ( cioè 33,46 ÷ 33,53 dp). Nella terza fila, la seconda e la terza pietra misurano altezze di 54,6 cm (pari a 35.55 dp). Per quanto riguarda le larghezze, la prima pietra della seconda fila misura 90,2 cm (58,72 dp), la terza della terza fila 118,3 cm (77,02 dp), la terza della quarta fila 80,2 ÷ 80,3 cm ((52,21 ÷ 52,28 dp) e la seconda della quinta fila 86,4 cm (56,25 dp). Si tratta dunque di pietre che all’origine erano state tagliate con grande accuratezza.

Nella metà destra del deposito (Figura 64) le altezze sono abbastanza regolari, frequentemente di 51,45 cm (33,50 dp) e meno frequentemente di 51,1 cm (33,27 dp).

Un centinaio di metri più a nord, al n. 20 della mappa, si eleva il basamento della torre principale del Castello di Edo, costruito nel 1457. Nella Figura 65 se ne può osservare, sullo sfondo, l’aspetto moderno, mentre in primo piano la rampa di accesso da sud ha un aspetto più antico. Data la posizione troppo scoperta, non ho voluto rischiare prendendo misure.

Mi sono spostato quindi presso la porta situata al punto 29; all’inizio della breve discesa, chiamata Bairinzaka, che porta al ripiano inferiore, sulla destra troviamo un muro apparentemente in opera poligonale del quarto tipo, ma poi riconoscibile come quinto tipo molto poco evoluto (Figura 66), e qui è stata fatta una misura del lato inferiore della pietra al centro della Figura 67, che è risultato lungo 158,2 cm (102,99 dp).

Al n. 26 si trova un’altra porta, dalla quale scende il declivio Shiomizaka. Gli stipiti della porta, come al n. 9, mostrano gli effetti di un incendio molto intenso. Lungo la discesa, sulla destra, si può notare che le pietre della parete tendono ad essere disposte su filari pressoché orizzontali (Figura 68 e 69), e questo ci consente di attribuire facilmente la costruzione al quinto tipo. Dal secondo filare dal basso sono state prese due misure: la prima, di 120,2 cm (78,25 dp), viene dalla pietra di Figura 70; la seconda, di 81,6 cm (53,125 dp) viene dalla pietra di Figura 71.

Tra le basi delle due discese Bairinzaka e Shiomizaka si estende un muro di 8 m di altezza (Figura 72), che fa parte della cinta difensiva interna. Un cartello ci informa che si tratta del rifacimento, eseguito tra il 2002 e il 2005, di un muro la cui costruzione originale è attribuita al 1656. Possiamo solo dire che il rifacimento, molto accurato, è stato fatto a imitazione del quinto tipo e che quindi l’originale doveva essere proprio del quinto tipo, ma con l’aggiunta di contatti talvolta imprecisi e qualche lato curvo, che ricorda l’opera lesbia. L’originale molto probabilmente era simile alla parete che si trova subito a sud del punto 31 (Figura 73) e, prossimo a questo, al muro della Figura 74.

Nella parte meridionale dell’isola è presente una doppia porta, la Kikyomon, che costituisce l’accesso al quartiere generale della Guardia imperiale, situato tra questa porta e la Otemon. La Figura 75 riporta una parete del cortile interno, chiaramente del quinto tipo.

Mi sono quindi trasferito nella parte sudoccidentale della terza isola che costituisce il complesso intorno al palazzo imperiale (v. mappa della figura 21) e che è ora un parco libero, attraversato tra l’altro da una strada di traffico quale la via Uchibori Dori. Qui si trova la porta Sakuradamon; nella Figura 76 vediamo come si presenta dalla parte dell’interno dell’isola. Nella Figura 77 è ritratta più in dettaglio la parte destra, di cui le Figure 78 e 79 mostrano due pietre che sono state misurate; la base della prima è di 52,2 cm (33,98 dp); i due lati inferiori della seconda misurano 66,0 e 47,6 cm (42,97 e 30,99 dp).

Nella parte retrostante di questa prima apertura, sulla parete di sinistra (Figura 80) il lato inferiore della pietra della Figura 81 misura 53,8 cm (35,03 dp); sulla parete di destra (Figura 82) la pietra della Figura 83 ha i due lati inferiori che misurano 54,15 e 16,9 cm (35,25 e 11,00 dp).

2.2 – Giardini Hamarikyu.

Portiamoci ora in un sito che si trova 2 km a sud-sud-est del punto dove ci trovavamo (v. figura 21). Si tratta dei giardini Hamarikyu, un’altra isola artificiale, circondata da canali che sono in contatto con il tratto terminale del fiume Sumida e sicuramente sono stati un porto-canale.

Si arriva a quest’isola da nord-ovest attraversando un ponte (Figura 84), oltre il quale si apre una porta tra due torrette. La sponda del canale sottostante è rivestita con un muro che appare di uno stile leggermente diverso da quello della porta, con una discontinuità orizzontale abbastanza netta tra i due.

Prima di varcare l’ingresso dei giardini, mi sono soffermato a osservare la breve parete di sinistra (Figura 85), in cui spicca un blocco di granito bianco, la cui altezza è di 89,3 cm (58,14 dp). Un particolare di questa parete è nella Figura 86. Nella seconda fila dal basso ho misurato i due lati inferiori della pietra di Figura 87, che sono di 13,4 e 31,5 cm (8,72 e 20,51 dp).

Nella parete di destra (Figura 88) sono state prese le misure del lato inferiore di due pietre: la prima (Figura 89) è di 33,0 cm (21,48 dp), la seconda (Figura 90) è di 55,3 cm (36,00 dp).

Passando all’interno, possiamo vedere che gli stipiti della porta (Figure 91 e 92) sono stati danneggiati dal fuoco. Sulla parete a sinistra (Figure 93 e 94) ho misurato la base della pietra al centro della Figura 95, sulla destra della quarta fila; la misura è stata di 74,1 cm (48,24 dp), (c’è da dire che ho supposto che questo lato sia stato determinato prima della posa in opera, anche se la pietra è stata collocata prima di quella alla sua destra). Per la pietra in Figura 96 quasi al centro della terza fila il lato inferiore misura 38,0 cm (21,74 dp). La seconda pietra a sinistra della terza fila è in Figura 97: i suoi lati misurano 29,4 e 35,5 cm (19,14 e 23,11 dp). Per compensare gli errori di due misure successive, che hanno un punto di mezzo in comune, trovo utile considerare la somma, che è 64,9 cm cioè 42,25 dp. Un’altra pietra viene ancora dalla terza fila e viene mostrata in dettaglio nella Figura 98. I due lati misurano 35,3 e 34,2 cm (22,98 e 22,26 dp), mentre la loro somma è 69,5 cm (45,25 dp).

3 - Nikko

Il santuario di Nikko si trova un centinaio di kilometri a nord-ovest di Tokyo e ad una quota di circa 600 m sul livello del mare. La pianta di Nikko è in Figura 99; la base è tratta dalla guida Lonely Planet. Gli edifici del santuario sono disposti su terrazzi, delimitati da altrettanti muri, che sono stati distinti con tre diversi colori: verde quello inferiore, giallo il secondo e rosa il terzo. Il primo e il secondo sono in quello stile di opera poligonale evoluta che è il quinto tipo costruttivo, mentre il terzo muro è in opera tagliata a squadro.

Il primo muro, alto 4 m, è esposto su due lati, uno occidentale e uno meridionale. Sul lato occidentale (Figura 100) le pietre hanno dimensione media, solo in pochi casi superando 1 m (Figura 101). L’elemento di Figura 102 ha misure di 17,7 e 82,9 cm (11,52 e 53,98 dp).

Del lato meridionale, diviso in due da una scala (Figura 103), la parte sinistra compare nelle Figure 104 ÷ 106, mentre la parte destra compare nelle Figure 107 ÷ 109. Possiamo notare che vi sono due elementi particolarmente più grandi degli altri: quello di sinistra misura 5,32 m di larghezza, mentre quello di destra è di 6,48 m.

Su questo primo muro di contenimento sono state prese in esame alcune pietre. Nella parte sinistra le prime due sono sovrapposte e compaiono nella figura 106. Più in dettaglio esse sono nelle Figure 110 e 111 e misurano: la prima cm 75,6 (49,22 dp) e la seconda106,8 cm (69,53 dp). Nella parte destra è stata misurata la pietra di Figura 112, la cui base è di 296,1 cm (192,77 dp); all’estremità opposta c’è la pietra della Figura 113, il cui lato inferiore misura 29,9 cm (19,47 dp).

Passando al secondo muro, esso è alto 4,4 m ed è visibile nelle Figure 114 ÷ 120. Le pietre su cui sono state eseguite le misure sono nelle Figure 121 ÷ 124 con i seguenti dati: 41,5 e 38,35 cm (27,02 e 24,97 dp), 13,0 e 28,0 cm (8,46 e 57,29 dp), 72,8 e 29,7 cm (47,40 e 19,36 dp), 17,6 e 82,9 cm (11,46 e 53,97 dp).

Per quanto riguarda il terzo muro, illustrato nella Figura 125, si è verificato quanto già riscontrato in Perù a Cusco, dove le pietre squadrate mostravano altezza troppo variabile per ricavare dati sicuri. Qui l’altezza della pietra in figura è risultata variare da 56,4 a 57,6 cm.

Sarà utile, per un confronto, osservare che ai fianchi del viale di accesso al santuario lo stile del muretto (Figura 126) è analogo a quello dei due muri più bassi incontrati all’interno del santuario.

4 - Kamakura

Scarne ma preziose osservazioni riguardano un terzo luogo, Kamakura, situato circa 50 km a sud-sud-ovest di Tokyo. Qui c’è un famoso tempio, il Kotoku-in, davanti al quale è esposto all’aperto il grande Buddha di bronzo della Figura 127; nelle Figure 128 e 129 sono in evidenza i muretti che fiancheggiano la rampa di accesso, e possiamo notare che essi sono stati costruiti in uno stile più rozzo di quelli descritti finora e che può essere riferito al secondo tipo.

5 - Osaka

Vorrei spendere qualche parola sul castello di Osaka, anche se non l’ho visitato: l’ho visto soltanto attraverso immagini disponibili sul web. L’ingresso principale al parco che circonda il castello è visibile nella Figura 130, tratta da Google Earth: dietro all’albero al centro si intravede un tratto di muro poligonale, con pietre nettamente più grandi di quelle che compongono il resto del muro, sulla sinistra. Gli elementi squadrati che fiancheggiano l‘accesso sono anch’essi di grandi dimensioni (Figura 131), e il muro che compare nella Figura 132 ci segnala che stiamo trattando opere del quinto tipo. Attraverso il vano della porta si intravedono altri megaliti, meglio visibili nelle Figura 133 e 134; essi ricordano le due pietre giganti del primo muro di Nikko. Una decina di blocchi all’interno hanno anch’essi grandi dimensioni; il maggiore ha un’altezza di 5,5 m e una lunghezza di 11,7 m (Figura 135).

6 – Elaborazione dei dati raccolti

Una certa preoccupazione riguardo ai risultati poteva derivare dal fatto che le misure effettuate potevano venire riferite all’unità di misura usata in Giappone dall’inizio dello shogunato e rimasta fino all’adozione delle misure occidentali. Questa unità, chiamata shaku, che è a dire il piede nipponico, era pari a 30,3 cm e veniva suddivisa in dieci sun. Lo shaku era dunque abbastanza prossimo a venti volte l’unità pelasgica, essendo 1,536 x 20 = 30,72 cm. Tuttavia i risultati dimostrano che le misure venivano fatte non in sun ma in dita pelasgiche.

Le 52 misure, espresse in dita pelasgiche fino alla seconda decimale, sono state riportate in un istogramma (Figura 136). In ascisse sono i valori decimali, che sono stati espressi fino ai centesimi, da 0 a 99; in ordinate le frequenze. Il picco che si riscontra intorno a 0,25 è del tutto casuale e può essere giustificato con il modesto numero dei rilievi. Gli stessi dati sono stati trasferiti in un altro istogramma (Fig. 137) dopo che sono stati ridotti al primo quarto di unità: così, ad esempio, 0,53 è diventato 0,03. Si vede così che ci sono due concentrazioni: una in corrispondenza di 0,25 e un’altra, più debole, in corrispondenza di 0,125. Ciò significa che le misure venivano prese con l’approssimazione per lo più a un quarto e talvolta (6 volte/52) a un ottavo. Ciò potrebbe significare che sui regoli o metri che venivano usati erano riportate quattro tacche per ogni unità, o “dito” (all’incirca una tacca ogni 4 mm). Letture a un ottavo di unità erano probabilmente fatte a stima. La stessa considerazione era stata fatta per le misure del muro perfetto di Machu Picchu (Mortari 2013a).

7 - Considerazioni

7.1– Tipi costruttivi.

I giardini imperiali di Tokyo si sono rivelati una preziosa miniera di informazioni sulla evoluzione della tecnica del quinto tipo dei muri megalitici, consentendo di osservare che i cambiamenti avvenuti possono essere raggruppati in poche fasi ben delineate.

1^ fase o “fase Bairinzaka”. Cominciano a presentarsi in modo sistematico allineamenti quasi orizzontali, che nella tecnica poligonale sono assenti o casuali e non sistematici. Ne vediamo un esempio nella Figura 138, che ritrae la parte sinistra della parete di fronte alla porta d’ingresso Otemon. L’allineamento, anche se non perfetto, riguarda la base di almeno tre o quattro elementi. Inoltre si presentano, seppure con una modesta frequenza, angoli retti o quasi. Ho scelto come luogo tipico la discesa che parte dal punto 29 della mappa (figure 66 e 67). Altri luoghi sono la porta Otemon (figure 25, 26, 31 e 34) e la porta Sakuradamon (figure 66 e 69). Man mano che si procede nel tempo gli allineamenti delle basi diventano più frequenti e seguono più precisamente delle linee rette. Possiamo attribuire a questa fase le mura di Pyrgi (figura 14), di Cosa (Figure 139 e 140), di Alatri (Figure 141 e 142) in Italia e della fortezza di Ollantaytambo in Perù (Figure 143 e 144).

2^ fase o “fase Shiomizaka”: i filari disposti orizzontalmente diventano più marcati, e sono più frequenti i quadrilateri. Tipici di questa fase sono i muri che si trovano lungo la discesa Shiomizaka (figure 57 e 58); lo sono anche quelli 200 m più a sud, cioè presso il punto 31 della mappa (figure 73 e 74), e gli stipiti della porta ancora più a sud, come quella della figura 39; lo è il muro presso il punto 5 della mappa (figura 46), come pure la zona d’ingresso dei giardini Hamarikyu (figure 84, 86, 93, 94). In Italia si può attribuire a questa fase il muro di Spoleto di figura 15. In Perù ci sono il muro di Cusco di Figura 145 e quello di Sacsayuaman delle Figure 146 e 147.

3^ fase o “fase Nakanomon”: cominciano a presentarsi elementi a contorno rettangolare, che col tempo tendono a prevalere nettamente. Esemplare della fine di questa fase è il muro in cui si trova la porta Nakanomon (figure 47 ÷ 50) e la parete in cima alla salita verso il punto 9 della mappa (figura 58). Nonostante che l’effetto della terza fase sia di ottenere pietre squadrate abbastanza precisamente, questa fase non può essere confusa con lo stile del sesto tipo poiché tra la terza fase del quinto tipo e il sesto tipo interviene un evento che dà una nuova impronta alla costruzione muraria: l’introduzione del taglio. Ce ne accorgiamo se confrontiamo i bordi del sesto tipo di Ishimuro (figure 62 ÷ 64) con quelli della base dello stipite della porta Nakanomon in figura 53. Dobbiamo tenere presente che la parte superiore del muro di Nakonomon è stato radicalmente ristrutturato nel 1704, in seguito a un terremoto che aveva colpito la città l’anno prima, con sostituzione di diversi blocchi con blocchi moderni sagomati a taglio, anziché a percussione. Un’altra ristrutturazione è avvenuta tra il 2005 e il 2007, ma con minima sostituzione di elementi.

Appartengono alla terza fase gli ingressi sia del santuario di Hagar Qim a Malta (figura 16) sia della roccaforte di Micene (figura 17) e il muro che compare sulla sinistra della Figura 148, addossato al Templo do sol a Machu Picchu. Ancora a Machu Picchu possiamo osservare il sovrapporsi della terza fase alla seconda nel muro che delimita il Conjuncto de los morteros dalla parte della Plaza sagrada (Figura 149) e il contatto, questa volta verticale, tra la terza fase del quinto tipo (in primissimo piano) e il sesto tipo, rappresentato qui da quello che localmente viene chiamato “muro perfetto” e delimita a ovest il Templo do sol (Figura 150), che ho già descritto (Mortari, 2013a). All’inizio di questa terza fase possiamo attribuire un breve tratto di un muro di Milo, Grecia (Figura 151), e il muro di sostegno sotto il tempio di Saturno a Sezze (Figura 152) per la presenza di qualche elemento a contorno perfettamente rettangolare.

7.2 – Sono coesistiti stili diversi?

La parte centrale del muro di Sezze della figura 152 può essere attribuita ancora alla seconda fase del quinto tipo, mentre gli elementi inferiori, di forma rettangolare, fanno propendere per la terza fase. È una situazione del tutto analoga a quella che ci si è presentata arrivando ai giardini Hamarikyu: osservando la figura 84, si vede in basso una seconda fase più evoluta rispetto alla parte più alta. Ciò è spiegabile con la rapida evoluzione che riguarda tutto il quarto tipo, che rendeva possibile che una stessa maestranza avesse esperienza di stili già abbastanza differenziati tra loro. Probabilmente si aggiungevano, in entrambi i casi, ragioni pratiche per sovrapporre uno stile meno evoluto ad uno stile un po’ più evoluto.

Indubbiamente gli allineamenti orizzontali e le forme rettangolari delle facce a vista permettevano una maggiore razionalizzazione delle operazioni sia nella fase di sagomatura che nella fase di montaggio. Quando poi è stato introdotto il taglio delle pietre, questo ha reso molto più veloce l’operazione di sagomatura in cava e quindi molto difficile un ritorno dal sesto al quarto tipo. Insomma, il primo poligonale rappresenta il culmine della complessità, dato che ogni singolo elemento deve essere trattato a sé, con proprie misure di lati e di angoli; in seguito, ciò che si è cercato è stata la semplificazione.

Al contrario alcuni autori, come Acocella (2004), sostengono che nella penisola italiana le popolazioni italiche avrebbero importato la tecnica poligonale dal mondo ellenico, nonostante che già da tempo fosse in uso la costruzione di muri in opera tagliata a squadro. Dopo la conquista romana le stesse popolazioni avrebbero diffuso l’opera poligonale nei territori che i Romani andavano occupando (Polito, 2011).

Figure 153

La coesistenza in Italia di stili così diversi come l’opera poligonale e l’opera tagliata a squadro non può essere sostenuta, oltre che per le ragioni già descritte di una improbabile involuzione, per altre tre ragioni: una è che difficilmente i Romani avrebbero abbandonato la costruzione di muri in opera squadrata, che era consona al loro modo di vedere il mondo (basti pensare all’assetto urbanistico della centuriazione, fondato su un reticolo ad assi ortogonali). Non è verosimile quindi che nel III secolo a.C. ad esempio venissero costruite a Cosa e a Pyrgi delle mura poligonali, dopo che nel VI secolo a.C. erano state erette le mura serviane a difesa di Roma (Figura 153).

La seconda ragione deriva dall’osservazione che, mentre possiamo trovare opere del sesto tipo al disopra di quelle poligonali, non mi risulta che vi siano opere poligonali al disopra di opere del sesto tipo, cosa che sarebbe possibile se le due tecniche avessero convissuto. Infine, la terza ragione è che mura poligonali di tipiche città conquistate dai Romani si sono dimostrate molto più antiche del momento della conquista (Mortari, 2012a).

Dopo questo chiarimento è possibile riprendere ora il problema della cronologia delle mura poligonali dopo che le mie visite in Giappone e a Malta hanno aggiunto nuovi elementi di giudizio.

7.3 - Cronologia.

La stretta somiglianza dei sei stili osservabili in aree del globo anche molto lontane tra loro suggerisce che ci sia una comune origine. In particolare, il legame tra opere poligonali (in senso lato) è stato dimostrato dalle misure effettuate sui lati dei poligoni del quarto e del quinto tipo in Italia, Grecia, Perù e Giappone. I dati indicano che una comune unità di misura era usata per determinare le lunghezze e che una sola popolazione era in grado di erigere questi diversi tipi di muri e di spostarsi con relativa facilità da una regione all’altra. Da qui il passo è breve a inferire che il passaggio da uno stile ad un altro potesse avvenire pressoché contemporaneamente in più punti del globo. Pertanto si può cercare di stabilire una cronologia attingendo informazioni da aree anche molto lontane, con la certezza che ogni cambiamento poteva essere trasmesso in un tempo molto breve.

Utilizzerò anche un modo non molto usuale per ricavare riferimenti temporali: esso consiste nel trovare manufatti che possano essere stati in relazione con la posizione del livello marino, le cui variazioni nel tempo sono state descritte con sufficiente dettaglio in Mortari (2021a). Nelle Figure 154 e 155 è illustrato il modo in cui è variato tale livello rispettivamente negli ultimi 30 mila anni e, più in dettaglio, negli ultimi 10 mila. Ci sono tre località dove questo criterio è stato adottato con profitto: Pyrgi, Orbetello e Yonaguni.

7.3a - Pyrgi.

Il caso di Pyrgi è assai particolare e potrebbe essere unico nel suo genere. Si tratta di un muro del quinto tipo che mostra frequenti orientamenti molto prossimi all’orizzontale dei lati dei poligoni e una semplificazione del numero dei lati. Il muro è alto per una metà del suo perimetro tra 3 e 4 m (Figura 156) e per l’altra metà all’incirca 1 m (Figura 157); la base si trova ad una quota di 1,6 m slm. Ciò che rende particolare il muro in questione è il fatto che le superfici delle sue pietre presentano in una grande percentuale fori prodotti da litodomi (Figure 158 ÷ 160), molluschi marini che vivono in grande prossimità del livello marino, si fissano ad una roccia e vi scavano la loro sede, senza abbandonarla mai, ampliandola man mano che crescono. Poiché l’area in questione non è soggetta a movimenti bradisismici, occorre pensare che dopo l’inizio della costruzione del muro il mare sia salito fino ad una quota di almeno 5 m. Dalla figura 155 possiamo ricavare le condizioni in cui il muro si trovava rispetto al livello marino. Fino al 3050 a.C. circa il mare ha stazionato a una quota intorno a 1,5 m. Poi improvvisamente il livello ha cominciato a salire, fino a portarsi, nel giro di una trentina di anni, a 7 m sopra la sua quota attuale. Si è dovuto attendere fino al III secolo a.C. perché il mare ritornasse ad una quota prossima a quella che aveva prima dell’ingressione. Quando i Romani hanno addotto qui una colonia, nel 273 a.C., era possibile riutilizzare la cinta di mura.

7.3b - Orbetello.

Un sondaggio effettuato a ridosso del muro poligonale che cinge la città di Orbetello (Figura 161) (Pincherle, 1990) ha trovato che la base di tale opera si trova a una profondità di 7 m dal piano campagna sul quale corre il viale Mura di Levante, a 3 m slm. In base alla ricostruzione della figura 155, possiamo dire che tale muro è stato eretto probabilmente durante l’intervallo tra circa 9500 e 7500 anni fa, quando il livello del mare si trovava 4 m più in basso di oggi, e sicuramente non in un tempo successivo a 7500 anni fa.

7.3c - Yonaguni.

150 m al largo della costa sud-orientale di Yonaguni, l’isola all’estremo sud-ovest dell’arcipelago giapponese, vi è uno scoglio sommerso da 5 m d’acqua, costituito da strati molto resistenti di arenarie e calcari deposti circa 20 milioni di anni fa. Esso è stato descritto da alcuni come una piramide o come un monumento, sagomato in gran parte dall’uomo. Meglio sarebbe chiamarlo “complesso monumentale”. Altri contestano l’interpretazione di un’origine artificiale delle superfici orizzontali e verticali che vi si trovano, sostenendo che esse hanno tutte caratteri naturali poiché sono comuni alla parte subaerea dell’isola. A dire il vero però non è frequente trovare sull’isola gradini di questo genere. Non riproduco le immagini, molto suggestive, che si possono trovare in abbondanza nella Rete, anche con diverse angolature di ripresa, il che aiuta ad avere idee più chiare. Mi limito a commentare alcuni aspetti particolari che offre il complesso monumentale.

Comincerò dalla depressione che viene chiamata “vasca triangolare”. Essa è a fondo piatto ed è contornata da gradini o superfici molto inclinate; evidentemente non può essere stata prodotta da normali fenomeni di erosione. Presso il bordo superiore della cavità si presentano due fori perfettamente circolari, di circa 80 cm di diametro, distanziati tra loro meno di 60 cm. Se la loro origine fosse naturale, ci si dovrebbe chiedere perché non ce ne sono altri, magari a distanza maggiore e di dimensione diversa? Fori del tutto simili come forma, dimensioni e distanza reciproca si trovano sull’isola di Pasqua; uno di essi è illustrato in uno dei libri di Thor Heyerdahl (1989).

Piccoli fori, una decina, disposti secondo una linea retta lungo il bordo di un gradino sono anch’essi non naturali perché limitati solo a questo caso e non replicati altrove. Essi sono del tutto analoghi ai fori che nelle antiche cave venivano praticati per distaccare una lastra di pietra da una parete.

A breve distanza dal monumento principale ve ne sono due, minori, uno dei quali viene chiamato “totem”: alto 7 m, vi è raffigurato un volto umano i cui occhi sono rappresentati da due cavità profonde e ben definite. L’altro monumento, denominato Gosintai, è una piccola piattaforma sulla quale è appoggiato semplicemente un grande sasso rotondo.

Infine attribuisco grande importanza al fatto che tutta la particolare morfologia a gradini e terrazzi è limitata alla profondità di 28 ÷ 30 m sotto l’attuale livello marino; la profondità corrisponde ad uno stazionamento del livello avvenuto in un breve intervallo di tempo, che possiamo valutare tra 10.500 e 10.300 anni a.C. (vedi figura 154). Si può pensare pertanto che la lavorazione dello scoglio sia stata iniziata durante la permanenza del mare a -29 m, ovvero circa 12.500 anni fa.

Attribuisco grande importanza allo scoglio di Yonaguni, nonostante la polemica sviluppatasi intorno all’origine della sua forma, perché mi sono convinto che non tutte le sue superfici possono essere frutto di processi naturali. Se la mano dell’uomo avesse intaccato anche solo il 10 % delle rocce di cui è formato, sarebbe una prova che per rimuovere i volumi relativi di arenarie e calcari si è fatto comunque uso di strumenti di bronzo.

7.3d - Göbekli Tepe

Dove non si trattava di erigere muri, come a Pygi e Orbetello, ma di sagomare pietre per usi legati a pratiche rituali, il tema si fa più complesso, e al caso di Yonaguni si affianca quello di Göbekli Tepe, in cui non c’era un problema di economia di lavoro, ma si intendeva raggiungere un determinato risultato. Lo possiamo vedere in questo sito turco (Figura 162, da Wikipedia), dove si sono avviati i recuperi di venti strutture completamente sepolte, quattro delle quali sono descritte ed illustrate da Klaus Schmidt (2011), lo scopritore. La costruzione di questi “templi” è avvenuta all’incirca tra il 9000 anni e l’8000 a.C.. L’eccezionalità degli ornamenti in rilievo, che riproducono sia figure di animali sia tratti umani, ci dice che siamo di fronte a opere sia di scalpellini sia di scultori. Nella Figura 163 (da Wikipedia) è riprodotto uno dei pilastri che caratterizzano queste costruzioni; la sua parte superiore è più ampia e funge da capitello. Ingrandendo tale espansione (Figura 164), si possono notare due tipi di impronte: il primo tipo, molto sporadico, è di una punta, che potremmo identificare con la estremità di un martello; l’altro tipo è di forma lineare con una disposizione ben parallela, verticale, distinta dalla struttura della roccia, che è inclinata: non è difficile riconoscere il segno lasciato dalla lama di uno scalpello. Sapendo che la larghezza del pilastro nella sua parte alta, subito sotto l’espansione, è di 102 cm (da una segnalazione gentilmente fornita da Nico Becker del Deutsches Archäologisches Institut di Berlino), si può ricavare la larghezza che doveva avere lo scalpello: circa 3 cm, come nel caso di Cori nella figura 13. La scarsezza delle impronte della punta indica probabilmente che l’uso di essa serviva solo per sgrossare il pilastro, cercando di rimanere a distanza dalla superficie definitiva. La rifinitura veniva eseguita con più precisi colpi di martello e scalpello. Con le attuali conoscenze lo scalpello era quasi sicuramente di bronzo.

Ne possiamo inferire che l’invenzione del bronzo deve essere avvenuta più di 11.000 anni fa. La lavorazione della cosiddetta piramide di Yonaguni ci suggerisce una data poco più antica; ho proposto che essa sia da fare risalire a un tempo di poco anteriore allo stazionamento del mare di circa 12.500 anni fa. Si può supporre provvisoriamente che sia avvenuta intorno a 13.000 anni fa. Poiché tra le prime applicazioni del bronzo vi è stata la sagomatura delle pietre per la costruzione dei muri del terzo tipo, possiamo ipotizzare che l’inizio di tale tecnica abbia un’età di 13.000 anni. L’opera poligonale potrebbe essere iniziata poco più di recente, forse 12.000 anni fa.

Queste datazioni, insieme a quella della edificazione del muro di Orbetello, è in netto contrasto con quanto è risaputo e cioè che il bronzo sia stato inventato quasi 6000 anni fa nella zona del Caucaso. Occorre dunque spiegare questo enorme paradosso archeologico.

7.4 – Due età del bronzo. Il caso di Malta.

Gli archeologi chiamano “Età del bronzo” un periodo di tempo caratterizzato dall’uso di oggetti prodotti con questa lega. Il termine deriva da una suddivisione cronologica relativa, valida di volta in volta per le aree abitate da specifiche popolazioni. Si è osservato che generalmente si succedono tre periodi fondamentali in cui i materiali utilizzati dominanti sono stati dapprima la pietra, poi il bronzo e infine il ferro.

In seguito, l’età della pietra è stata suddivisa in tre parti: Paleo-, Meso- e Neo-litico, e nella parte finale del Neolitico è stata inserita una “Età del rame”, di transizione fra l’Età della pietra e l’Età del bronzo, chiamata anche “Calcolitico” o “Eneolitico”, a indicare che in quel periodo potevano essere rinvenuti manufatti sia di rame che di pietra. Implicitamente si potrebbe essere indotti a pensare, dato che il suffisso -litico non è stato più impiegato, che nell’Età del bronzo i manufatti di pietra non venissero più prodotti. Al contrario, soprattutto all’inizio, tali manufatti hanno continuato ad essere presenti, anche se in quantità minori, poiché la pietra era un materiale molto semplice da ottenere. È stato un po’ come, in tempi moderni, ciò che è avvenuto con i prodotti industriali e quelli artigianali.

A rigore ritengo che si sarebbe potuta prendere in considerazione anche una “Età dell’oro”, poiché prima del rame sicuramente deve essere stato scoperto quest’altro metallo, il quale si presenta allo stato nativo in depositi secondari di facile accesso, come accade nei letti fluviali, e, diversamente dal rame, non si altera. L’oro non è adatto alla confezione di utensili, ma gli oggetti d’oro si conservano bene negli orizzonti archeologici in determinate condizioni come nelle sepolture.

La fortuna che ha avuto il bronzo è dovuta alle sue caratteristiche tecniche: esso è rigido, il che lo mette al disopra del rame e dell’oro, e non è fragile, il che costituisce la principale differenza con la selce o l’ossidiana.

La definizione di “Età del bronzo” che ho citato poco sopra, all’inizio del capitolo, parla di uso di oggetti di bronzo, ma nella realtà gli archeologi seguono un altro criterio, che è quello del rinvenimento di oggetti di bronzo. Non si preoccupano se a un determinato livello sono correlabili costruzioni o artefatti che indichino che per la loro costruzione è stato fatto uso di utensili di bronzo. È il caso ad esempio della piramide di Yonaguni: essa ci ha messo di fronte a forme in parte artificiali, ricavate in una roccia molto resistente con asportazione di grandi volumi; queste modificazioni delle forme naturali si presentano improvvisamente nella storia dell’uomo, e non possiamo pensare che siano state ottenute con strumenti litici, che sono sempre stati a disposizione da quando il genere homo ha dimostrato di essere habilis.

Nella storia dell’uomo non era la prima volta che una roccia veniva intaccata: le incisioni rupestri più antiche risalgono al paleolitico superiore e riguardano rocce anche molto resistenti; le tecniche sono o con picchiettatura (percussione) o con raschiatura a graffio (Figure 165 e 166, da Wikipedia). Generalmente però sono trattamenti molto superficiali; quando una roccia veniva scavata per formare concavità, chiamate “coppelle” (Figura 167), adatte a raccogliere acqua piovana, la profondità raggiunta era di pochissimi centimetri.

Una lavorazione più approfondita è testimoniata dalle cosiddette “veneri”: si tratta di statuine di piccole dimensioni che generalmente sono figure di donne; in questi casi la lavorazione è ottenuta probabilmente con incisori di selce, e il materiale usato è costituito da rocce tenere, come marne e steatite, o mediamente resistenti, come calcari puri. La loro produzione inizia anch’essa nel Paleolitico superiore. Nella Figura 168 è rappresentata la venere di Willendorf (da Wikipedia), di 11 cm di altezza, ricavata da un calcare puro. In conclusione, i volumi rimossi sia con la percussione che con l’incisione sono di entità molto piccola e richiedono tempi lunghi.

Oltre all’isola di Yonaguni, l’arcipelago maltese ci può aiutare a chiarire il problema che stiamo affrontando. A Malta e Gozo il primo popolamento umano documentato risale a circa 7100 anni fa, ma è possibile che le due isole fossero già abitate in precedenza, tenendo conto del fatto che durante l’ultima puntata glaciale, e più precisamente tra 25 e 20 mila anni fa, il livello marino si era abbassato fino a 115 m sotto quello attuale (v. figura 154). Una striscia continentale, presente tra Malta e la Sicilia e profonda ora al massimo circa 90 m, permetteva a quel tempo una migrazione dall’isola maggiore. Non possiamo escludere neppure che il popolamento sia avvenuto via mare, cosa molto probabile se consideriamo che le mura difensive di Borg in Nadur (figura 3) si trovano su un’altura che sovrasta un piccolo golfo. E tali mura, del secondo tipo, suggeriscono, per quanto detto su Yonaguni, che siano più antiche di 12.500 anni fa.

I ritrovamenti di diverse ceramiche nell’arcipelago maltese hanno consentito di stabilire correlazioni stratigrafiche, mentre un certo numero di datazioni col radiocarbonio effettuate su scheletri umani ha portato ad una cronologia; sono state distinte quindi sei principali fasi, che si estendono dal 5100 al 2350 a.C..

Seguendo Ferruzzi (2009), viene distinto un Neolitico antico (5100 ÷ 4100) da un Neolitico recente (4100 ÷ 2500), detto anche “Età templare” in quanto ad esso viene riferita la costruzione dei vari templi disseminati sul territorio. Viene considerato poi un epilogo di questa età tra il 2500 e il 2350, alla fine del quale a Skorba compaiono danneggiamenti intenzionali, mentre in almeno un caso (il Brochtorff Circle) la struttura del tempio è stata riempita di terra; subito dopo l’arcipelago maltese si è spopolato, e solo a partire dal 2200 a.C. circa viene abitato da una nuova popolazione, che ha lasciato tra le tracce di sé oggetti di bronzo. Perciò gli archeologi fanno iniziare da quest’ultima data la locale Età del bronzo.

L’Età templare è suddivisa in alcune fasi: Zebbug (4100 ÷ 3700), Mgarr (3800 ÷ 3600), Ggantija (3600 ÷ 3200), Saflieni (3300 ÷ 3000) e Tarxien (3150 ÷ 2500). Le date sono state ricavate da reperti ottenuti durante scavi fatti presso i luoghi di culto. Da qui si è inferita la diversa età dei vari santuari. In effetti però la locale cronologia stratigrafica può rendere conto non tanto della costruzione dei templi quanto, al massimo, della evoluzione della produzione ceramica e quindi della frequentazione dei luoghi.

Proviamo ora invece ad esaminare i templi con un’altra visuale: quella derivante dagli stili costruttivi che abbiamo trattato finora. I tre templi di Ta Hagrat (Figura 169, da Wikipedia), Skorba (Figura 170, da Wikipedia) e Borg in Nadur (Figura 171, da voglioviverecosiworld.com) appaiono appartenere al secondo tipo in quanto i blocchi di pietra non mostrano evidenti correzioni artificiali di forma, ma sono stati scelti semplicemente per offrire alla vista superfici il più possibile uniformi. È notevole anche il loro megalitismo.

Osserviamo ora i templi di Ggantija (Figura 172), Hagar Qim (Figura 173, da Sacred destinations.com) e Mnajdra (Figura 174). Le immagini mostrano come essi si presentano all’esterno, e ancora vediamo che è presente il secondo tipo (a Mnajdra, a destra e a sinistra dell’immagine). Ma se gli stessi templi vengono osservati dalla parte interna, le cose cambiano: nelle Figure 175 e 176 vediamo l’accesso, a sud-est, di Ggantija con coppie di ortostati del quinto tipo. All’interno di questo santuario si aprono nove celle, di cui quella disposta più a sud-ovest è riportata nella Figura 177. Qui un altare è stato appoggiato a una parete di pietre grezze, con l’interposizione di una cortina di pietre tendenzialmente squadrate; altare e cortina sono del quinto tipo. Il contrasto tra le pietre grezze e la parete del quinto tipo è pronunciato (Figura 178).

Abbiamo già visto nella figura 16 parte della facciata di Hagar Him: in primo piano è solo la parte più recente; nella Figura 179 vediamo pietre lavorate e anche finemente decorate. È una avanzata terza fase del quinto tipo.

Infine, a Tarxien, tanto le pareti esterne (Figura 180) quanto quelle interne (Figura 181) rispecchiano ancora la terza fase del quinto tipo (occorre sapere che le parti più chiare sono state ricostruite in cemento). Nello stesso sito si trovano pietre con scolpiti in bassorilievo: disegni geometrici (Figura 182) o immagini di animali (Figura 183) o alcune rappresentazioni di corpi femminili, anche di grandi dimensioni (Figura 184).

Pietre finemente lavorate sono anche nel tempio occidentale del santuario di Mnajdra (Figura 185 ÷ 187); nell’ultima figura, che riproduce un dettaglio della precedente, risalta l’uguaglianza delle piccole cavità e la grande regolarità della loro distribuzione. Un particolare di estremo interesse è presente nella parte più interna del tempio centrale: qui un altare è fiancheggiato da due ortostati (Figura 188), di cui quello di destra mostra segni che ritengo si debbano interpretare come tracce dell’uso di uno scalpello (Figura 189). Lo dimostrerebbero sia l’orientamento parallelo sia la lunghezza limite di tali tracce, che tende ad essere la metà del valore dell’unità di misura pelasgica. Inoltre è da tenere presente che il calcare della figura è un calcare compatto di origine corallina e dotato di una considerevole resistenza; esso non poteva essere lavorato agilmente, nella misura in cui è stato lavorato, con semplici strumenti litici.

Da questa rassegna degli stili adottati nella costruzione dei muri dei templi emerge dunque un forte contrasto tra parti in cui spicca il secondo tipo e parti in cui domina invece il quarto tipo. La compresenza dei due stili suggerisce che la popolazione che ha adottato lo stile più evoluto abbia ristrutturato templi che erano già stati eretti alcuni millenni prima. Pertanto dovremmo distinguere una “Prima Età templare” da una “Seconda Età templare”.Mentre la Prima Età templare può essere assegnata con certezza al Neolitico, la Seconda Età templare, caratterizzata da una intensa lavorazione di pietre calcaree molto tenaci, deve essere più recente poiché si è fatto uso di strumenti di bronzo, anche se tali strumenti non sono stati mai trovati.

L’età del bronzo a cui possiamo riferire la fase di Tarxien ha radici nel tempo più remote della comune Età del bronzo che si è irradiata dall’area del Caucaso a partire dall’inizio del IV millennio e che è iniziata a Malta intorno al 2200 a.C.. Infatti il quarto tipo che vi è rappresentato costituisce una tappa evolutiva di un processo della lavorazione della pietra che è iniziato con le mura del terzo tipo. Questo processo si è svolto a partire da più di 12.500 anni fa ed è nato molto probabilmente in Perù, dove si trovano giacimenti importanti di arsenico, che insieme al rame fornisce una lega molto resistente, anche più resistente della lega di rame e stagno. Dovremmo dunque parlare di una “Prima Età del bronzo” e di una “Seconda Età del bronzo”.

Il divario di circa 7000 anni tra le due invenzioni del bronzo può essere spiegato ammettendo che la prima sia stata custodita gelosamente. E chi custodiva l’invenzione probabilmente risiedeva dove l’invenzione era stata fatta, cioè in Perù. Da lì gli arnesi di bronzo potevano uscire solo se affidati a maestranze che si recavano nelle altre parti del pianeta dove vi erano insediamenti della stessa popolazione. Terminata la costruzione, ad esempio, di un muro difensivo, i tecnici ritornavano nella loro sede di partenza riportando indietro gli arnesi utilizzati. Una tale ipotesi da una parte spiega la straordinaria somiglianza degli stili costruttivi e dall’altra giustifica la possibilità di considerarli evoluti in modo sincrono.

7.5 – Quattro secoli molto intensi.

Figure 190

I muri del quinto tipo devono avere avuto una rapida evoluzione. La rapidità in questione è documentata confrontando l’età del più giovane dei muri del quarto tipo e l’età della più antica costruzione costituita da pietre tagliate a squadro. Il primo caso è fornito dalle mura di Pyrgi, mentre per il secondo caso abbiamo il complesso funerario del faraone Zoser a Saqqara. Le età sono rispettivamente del 3050 e del 2650 a.C.. Il complesso di Saqqara comprende la grande piramide a gradoni e un insieme di edifici; sono questi che vengono considerati il primo monumento datato costruito in opera tagliata a squadro (Figura 190 da Wikipedia). Possiamo ipotizzare che l’inizio dei muri tagliati a squadro sia da porre a metà dell’intervallo tra queste due date.

Può sorprendere che il quinto tipo di muri possa avere avuto una evoluzione così rapida, specialmente se la confrontiamo con la stabilità avuta dal quarto tipo, rimasto invariato per sei millenni, secondo l’ipotesi fatta riguardante l’età del suo inizio. Ma un caso fortemente analogo è avvenuto quando i Romani hanno cominciato ad usare sistematicamente un legante idraulico per la costruzione dei muri: all’inizio del II secolo a.C. essi hanno messo a punto la tecnica del cementizio (opus caementicium); tale tecnica è variata nell’arco di 500 anni, ma con la maggiore evoluzione nei primi due secoli, con le opere incerta, reticolata, quasi reticolata, laterizia e mista, tanto che in tale breve periodo si può datare un edificio con una buona approssimazione sulla base della tecnica adottata.

Dopo l’invenzione del taglio delle pietre, nei due secoli che rimangono, tra il 2850 e il 2650 a.C., c’è il tempo per l’affermazione del sesto tipo di muri a partire da un’area che dovrebbe essere la stessa in cui è nato il primo bronzo; poi la nuova tecnica deve essere sfuggita al controllo e passata a quelle nuove popolazioni entro le quali aveva già cominciato a diffondersi la nuova metallurgia del bronzo. Gli Egizi si erano già appropriati di tale metallurgia nel 3150 a.C. e dopo meno di 500 anni sono arrivati a impadronirsi in modo mirabile della tecnica del taglio delle pietre, saltando le tecniche legate alla lavorazione per percussione. Non si può non rimanere sorpresi dalla rapidità della evoluzione tecnologica nell’antico Egitto, soprattutto se si considera che le costruzioni erano in precedenza erette utilizzando mattoni.

Essendo ragionevole pertanto collocare l’inizio dell’opera tagliata a squadro nel 2850 a.C. e considerando che nel 3050 a Pyrgi il quarto tipo forse era già iniziato, possiamo assegnare provvisoriamente alle tre fasi del quarto tipo gli intervalli 3100 ÷ 3000, 3000 ÷ 2950 e 2950 ÷ 2850 a.C..

L’intervallo proposto per la terza fase del quinto tipo si accorderebbe con l’età più probabile elaborata da Ferruzzi per la parte iniziale della fase Tarxien, ben rappresentata nel cosiddetto “cerchio di Xiaghra”; essa è identificabile con un picco corrispondente al 2900 a.C.. In tale momento è possibile che si sia realizzata la ristrutturazione dei vari templi dell’arcipelago maltese.

Le precisazioni sulla cronologia delle opere megalitiche ci consentono di rivedere alcune date delle costruzioni osservate in Giappone: per quanto riguarda le più antiche opere difensive di Tokyo, che vengono riferite alla fine del XII secolo, in realtà sarebbero state erette a partire da 5100 anni fa circa. I muri di Nikko avrebbero invece più di 5100 anni e quelli di Kamakura oltre 13 mila.

I giardini imperiali di Tokyo, con la loro concentrazione di varietà di stili costruttivi, ci aiuta ad avere un’idea della rapidità con cui si è evoluto il quarto tipo. La prima fase è rappresentata in corrispondenza di porte. Le due cinte murarie, esterna ed interna, dei giardini imperiali orientali sono state erette dapprima durante le prime due fasi. La terza fase è circoscritta ad un’area intorno al numero 6 della mappa cioè nei pressi della porta Nakanomon. Quest’area sembra essere una espansione successiva della cinta interna, come una appendice nella sua parte sud-orientale.

7.6 – Chi furono i protagonisti della Prima età del bronzo?

La scala cronologica ricostruita finora ci permette di fare un altro genere di considerazioni. Riprendiamo la figura 17, che riproduce la Porta dei Leoni di Micene. Ho già preso questo caso come esempio della terza fase del quinto tipo costruttivo delle mura megalitiche, la cui età più probabile, al momento, sembra essere tra il 2950 e il 2850 a.C.. Tale intervallo è nettamente anteriore all’arrivo nel Peloponneso del popolo indoeuropeo degli Achei, che avvenne intorno al 1600 ÷ 1500 a.C. e portò alla sottomissione della popolazione locale. Erodoto affermava che prima dell’arrivo di questa nuova popolazione, di lingua ellenica, la Grecia era abitata dai Pelasgi e l’intera Grecia era denominata Pelasgia. Perciò la Porta dei Leoni non è opera degli Achei ma dei Pelasgi.

Tucidide diceva che i Pelasgi erano l’unico popolo che costruiva le proprie città sulla spiaggia. Questo corrisponde a quanto affermava Strabone, secondo il quale Cere, e quindi Pyrgi che ne era il porto, era stata fondata dai Pelasgi: in effetti la base delle mura poligonali di Santa Severa si trova molto prossima alla quota a cui si trovava il livello del mare a quel tempo. Anche il caso di Orbetello confermerebbe l’osservazione di Tucidide.

Poiché le mura poligonali sono state tutte erette (almeno da quanto è stato misurato) adottando la stessa unità di misura, se ne può inferire che le città cinte da mura poligonali sono state erette esclusivamente da chi finora ho chiamato Pelasgi. A rigore questo nome dovrebbe essere utilizzato per il solo territorio che Erodoto chiamava Pelasgia. Al di fuori di esso certamente la stessa popolazione aveva nomi diversi e la penisola italiana non poteva fare eccezione. Se Strabone parlava di una Pyrgi pelasgica dipende dal fatto che egli era di cultura greca. Ma, poiché c’è la necessità di dare un nome complessivo alla popolazione che costruiva mura poligonali nel bacino mediterraneo, in Sudamerica e in Giappone, ritengo che il nome dei Pelasgi possa essere esteso dal suo nucleo iniziale greco a tutti coloro che erano accomunati da quella tecnica costruttiva e quasi sicuramente parlavano una stessa lingua. Per questo si è chiamata “unità pelasgica” o “dito pelasgico” (dp), l’unità di misura per le lunghezze che è stata ricavata dallo studio delle mura poligonali.

8 - Conclusioni

Nelle tre località visitate in Giappone sono stati riconosciuti quattro tipi di opere murarie antiche. Il secondo tipo è presente a Kamakura; a Tokyo e a Nikko sono presenti il quinto e il sesto tipo. Si è appurato che le pietre dei muri del quarto, quinto e sesto tipo sono state sagomate determinando le lunghezze dei lati delle facce a vista con la stessa unità di misura di 1,536 cm che è stata usata per erigere opere analoghe nell’area del Mediterraneo e in Sudamerica. Tale unità è nettamente diversa da quelle in uso presso altre popolazioni che abbiano costruito muri in pietra negli ultimi cinque millenni, e possiamo dire che essa è stata l’invenzione di una popolazione che era diffusa inizialmente intorno al bacino mediterraneo ed era nota in Grecia con il nome di Pelasgi, mentre in altre regioni aveva quasi sicuramente altri nomi. Dato che in gran parte tali nomi non sono noti, si è pensato di chiamare Pelasgi tutte le varie componenti di quella stessa popolazione.

Per le scarsissime notizie che ne abbiamo, i Pelasgi sono a volte considerati creature mitiche, e le loro opere architettoniche vengono attribuite a tempi più recenti del reale. Così avviene che comunemente le mura difensive di Tokyo che abbiamo esaminato vengono considerate erette a partire dalla fine del XII secolo, mentre dobbiamo inferire, da quanto detto in questo lavoro, che esse hanno un’origine pelasgica e risalgono a circa 5000 anni fa.

La stessa età è attribuibile al santuario di Nikko, che però, secondo la tradizione, sarebbe stato costruito nel 1617 per contenere le spoglie di Tokugawa Ieyasu fondatore dello shogunato Tokugawa.

a presenza più antica dei Pelasgi nell’arcipelago giapponese è testimoniata dai bassi muri sui fianchi della scala di accesso al tempio Kōtoku-in di Kamakura: essi vengono qui fatti risalire a più di 13.000 anni fa.

9 – Lavori citati

Acocella A. (2004) L’architettura di Pietra. Antichi e nuovi magisteri costruttivi. Lucense-Alinea. Firenze.

Fantuzzi T. (2009) Cronologia e culture dell’arcipelago maltese tra il VI e il IV millennio cala C. Tesi di laurea online Università Ca Foscari Venezia.

Heyerdahl T. (1989) Easter Island: The Mystery Solved. Random House, New York.

Mortari R. (2012a) 2012 – Dalla profezia Maya alle previsioni della scienza. 85 pp.

Mortari R. (2012b) Confronto tra mura poligonali d’Italia e Grecia.

Mortari R. (2013a) Opere megalitiche dell’area mediterranea e del Sudamerica. Identità e differenze.

Mortari R. (2013b) Civiltà megalitiche del Mediterraneo e del Sudamerica. Un confronto.

Pincherle M. (1990) La civiltà minoica in Italia. Le città saturnie. Pacini. Pisa.

Polito E. (a cura di) (2011) Guida alle mura poligonali della provincia di Frosinone. Provincia di Frosinone. 96 pp.

Schmidt K. (2011) Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi. Oltre Edizioni. Sestri Levante.