Riassunto

Un rilevamento effettuato su opere murarie delle Ande centrali ha permesso di riconoscere che queste sono state erette utilizzando una unità di misura di 1,536 cm, la stessa che veniva impiegata nella costruzione delle opere megalitiche in Italia e in Grecia. Nelle due aree messe a confronto si sono succedute stesse tecniche, ma solo in Sudamerica si trovano le indicazioni di una evoluzione con transizioni chiare tra di esse.

Introduzione

Le strette somiglianze tra le mura megalitiche – e in particolare le mura poligonali – che si trovano in più parti del mondo hanno fatto spesso pensare che esse non siano frutto del caso ma derivino da intensi scambi tra culture. Tuttavia è forte la resistenza che si oppone a questa idea da parte degli specialisti, i quali negano oltretutto che si tratti di opere molto antiche, preistoriche. In Sudamerica le opere poligonali e successive vengono comunemente attribuite agli Inca, pur essendo stato il loro dominio molto limitato (dal 1450 al 1532) in rapporto alla complessità delle strutture in questione. In Italia il mondo accademico sostiene con fermezza che le mura poligonali sono opere costruite dai Romani durante le loro conquiste territoriali (Polito, 2011).

La perfetta giuntura dei blocchi poligonali non ha avuto fino a poco tempo fa una spiegazione soddisfacente. Solo effettuando misure precise degli spazi che dovevano essere man mano occupati dai blocchi da mettere in opera si poteva ottenere il perfetto incastro. Esaminando le mura poligonali di alcune città del Lazio, Toscana ed Abruzzo (Mortari, 2012a), si è potuto così stabilire che i costruttori di queste opere megalitiche avevano adottato per i lati dei poligoni una unità di misura pari a 1,536 cm, ben distinta da quelle che poi sono state le unità di misura degli altri popoli che si affacciavano sulle coste del Mediterraneo. Era stata adottata anche una suddivisione sessagesimale dell’angolo retto, differentemente dalla suddivisione nonagesimale che è arrivata fino a noi.

Estendendo questa ricerca alla Grecia, anche se limitatamente a Milo e ad Atene, si sono ottenuti risultati coincidenti (Mortari, 2012b), e ci si può convincere che tali opere hanno preceduto non solo le civiltà romana ed etrusca ma anche quelle elleniche. Dato che la popolazione indigena della Grecia prima dell’arrivo delle popolazioni di lingua indoeuropea era costituita dai Pelasgi, come è testimoniato dalla letteratura più antica, e che la maggiore concentrazione di città con mura analoghe a quelle che stiamo trattando si ha nell’Argolide, si è pensato che le città munite di mura poligonali che si trovano in Italia siano state fondate da Pelasgi provenienti dal bacino del mare Egeo. Per questo è sembrato opportuno chiamare “dito pelasgico” l’unità di misura ricostruita in Italia e in Grecia.

Nel Mediterraneo possono venire distinte quattro principali tecniche utilizzate per la costruzione di muri megalitici. Procedendo dalle meno alle più evolute abbiamo:

Opere in pietra grezza. I muri di questo tipo risultano dall’accatastamento di pietre allo stato naturale con lo scopo di sostenere o proteggere un terreno retrostante o creare una parete verticale di difesa. Tra i pochi esempi si possono citare Amelia (Figura 1) ed Artena.

Opere in pietra sgrezzata. Le mura appartenenti a questa classe corrispondono a quelle già descritte in Italia e considerate opere megalitiche di seconda maniera (Mortari, 2012b). Le pietre sono giustapposte senza ritoccare in modo apprezzabile i contorni e – a differenza della prima maniera – esponendo all’esterno una faccia il più possibile piana, così da costituire nell’insieme una parete abbastanza uniforme. I tratti maggiori lasciati vuoti venivano riempiti con pietre minori. Ne sono esempi in Italia le mura difensive di Roselle (Figura 2) e di Norba (Figura 3), e, in Grecia, alcuni tratti delle mura di Micene e Tirinto.

Opere in pietra poligonale. Talvolta i muri appartenenti alle classi appena considerate vengono chiamati anche poligonali, ma questo nome va riservato alle costruzioni in cui le facce degli elementi sono rese volutamente piane, e i contorni delineano poligoni irregolari, come possiamo vedere ad esempio ad Amelia (Figura 4), Alba Fucens (Figura 5), ma anche in Grecia, ad Atene, in un modesto muro presente ai piedi dell’acropoli (Figura 6). La precisione raggiunta in questo genere di costruzione – tale da non lasciare spazi aperti tra i vari blocchi – è possibile solo con l’uso di attrezzi metallici. Nella Figura 7, che illustra un tratto del muro poligonale di Cori, si possono notare i segni lasciati da uno scalpello sulla roccia di natura calcarea; il salto di qualità tra le opere del secondo tipo e quelle poligonali è dovuto al fatto che in precedenza le pietre venivano lavorate con attrezzi litici, che consentivano di ottenere limitati ritocchi. In tutte le opere poligonali che si trovano in Grecia e in Italia risalta la rettilineità dei segmenti del contorno; la presenza di tratti curvi è generalmente molto sporadica. In Grecia, probabilmente poco prima dell’adozione dell’opera squadrata, è comparso un genere di sagomatura delle pietre che è stato chiamato fin dal periodo classico “opera lesbia”, in cui si è ricorso molto frequentemente a superfici di contatto curve; ne possiamo ammirare un bell’esempio nella sostruzione del tempio di Apollo a Delfi (Caviasca, 2007).

Opere in pietra squadrata. Greci e Romani avevano ampiamente adottato fin dall’inizio la tecnica delle pietre squadrate. Questa tecnica si è sviluppata solo in seguito all’adozione di nuovi strumenti, per lavorare la pietra non più a percussione ma a taglio. Questi strumenti potevano essere tanto la sega quanto il filo elicoidale. Non vi sono ancora prove che muri siano stati eretti con questa tecnica da parte dei Pelasgi. Nell’area mediterranea le più antiche opere di questo genere più evoluto si trovano in Egitto: nella Figura 8, tratta da Wikipedia, vediamo parte del complesso funerario del faraone Zoser a Saqqara.

Da quanto detto è naturale che venisse la curiosità di andare a riscontrare se anche le mura poligonali che si trovano in Sudamerica sono state costruite misurando gli spazi con la stessa unità di misura riscontrata in Italia e Grecia. Questo sembra un solido argomento per verificare, o meglio falsificare, il modo di pensare ufficiale, secondo il quale le opere compiute con pietre poligonali in parti del mondo così lontane e apparentemente così isolate come il Mediterraneo e il Sudamerica sono solo casualmente somiglianti.

Osservazioni

Le osservazioni di cui viene dato conto in questo articolo sono state compiute nell’area dell’altopiano delle Ande centrali, tra Cusco e Tiwanaku. Anche qui sono presenti opere in pietre sgrezzate, in pietre poligonali e in pietre squadrate. Mancano opere originali del primo tipo.

Un muro del secondo tipo si trova a Sillustani (Figura 9). La parte in secondo piano è in pietra sgrezzata mentre quella in primo piano è in pietra grezza. Tuttavia è evidente che la parte in primo piano è recente, rifatta su una base più antica. Altri muri in pietra sgrezzata delimitano i quartieri più antichi di Ollantaytambo (Figure 10 ÷ 12); possiamo notare che, per avere una parete più piatta possibile, si sono scelti elementi che già presentavano naturalmente una superficie piana, limitandosi quindi a ritoccare eventualmente i contorni, soprattutto per le pietre di dimensioni minori, utilizzate per occludere al meglio gli spazi rimasti liberi tra le pietre maggiori. A Machu Picchu opere in pietra sgrezzata costituiscono muri di sostegno di pochi metri di altezza (Figura 13). Qui, In prossimità del tempio del Sole, è degno di nota un muro basso (Figure 14 e 15) che rivela particolari importanti di lavorazione, avvenuta in modo molto più incisivo di quanto si rilevi solitamente su un’opera di questo tipo; in particolare al blocco al centro della Figura 16 è stato riservato un appoggio privilegiato, ricavato sagomando adeguatamente i due elementi che lo sostengono con due incisioni tanto profonde rispetto al passato da fare pensare che la sagomatura deve essere stata eseguita con strumenti non di pietra, come era sempre avvenuto in precedenza, ma di metallo. A differenza dell’area mediterranea, in cui, come si è già visto nella Figura 7 di Cori, venivano usati martello e scalpello per ritoccare le pietre di natura calcarea, nelle Ande centrali gli strumenti usati sono martello e punta poiché le rocce di natura ignea sono molto più resistenti. Possiamo vedere i segni lasciati dalla percussione di una punta su alcuni blocchi di Sacsayhuaman e di Ollantaytambo nelle Figure 17 e 18.

Anche il muro della Figura 19, il cui spigolo è il più orientale tra quelli appartenenti all’isolato de las tres portadas di Machu Picchu, mostra alcuni elementi che sono stati incavati per consentire un migliore incastro delle pietre superiori e ridurre notevolmente la presenza di cunei di riempimento degli spazi liberi tra i vari elementi. Un passo avanti nello stesso senso si avverte esaminando il tratto di muro della Figura 20, che appartiene allo stesso isolato e ne forma lo spigolo meridionale. Qui i ritocchi sono stati più marcati, e si sono già cominciati a delineare contorni tipicamente poligonali.

Una evoluzione è riconoscibile anche nell’ambito del tipo dei muri poligonali propriamente detti. Le forme più semplici si trovano a Pisac (Figura 21) e alla fortezza di Ollantaytambo (Figura 22): sono caratterizzati dall’avere i lati dei poligoni per la massima parte rettilinei, essendo poco frequenti gli spigoli curvi. Si può notare che spesso gli spigoli sono smussati, con conseguente aspetto bugnato. Questo è dovuto probabilmente al fatto che durante il trasporto e la messa in opera era possibile che i bordi già lavorati venissero intaccati accidentalmente. Per sopperire allo stesso inconveniente quando gli spigoli interessati erano quelli perpendicolari alla superficie esterna, un passo successivo è stato quello di sagomare l’elemento che doveva coprire il difetto con una espansione che lo riempisse (Figura 23) oppure sagomare l’angolo che doveva accogliere la pietra difettosa con una adeguata curvatura (Figura 24). Se il difetto non si manifestava, gli angoli venivano mantenuti normali e le curvature servivano a sopperire a mancanze di volumi ben maggiori, dovuti alla conformazione della pietra già in posto (Figure 25 e 26), come si osserva ad esempio alla fortezza di Ollantaytambo. Infine nelle Figure 27 ÷ 29 un ulteriore passo evolutivo può essere osservato all’esterno del lato settentrionale e del lato meridionale del tempio delle tre finestre di Machu Picchu, notando che gli elementi sono perlopiù trapezi che tendono a diventare rettangoli. Sembra che questa tendenza preluda all’introduzione di muri con pietre squadrate, come quello che si vede sullo sfondo della figura 28.

Misure di spigoli. Sono state eseguite misure di spigoli di pietre sia poligonali che squadrate per verificare quale sia l’unità di misura adottata. Le pietre che meglio si sono prestate per questa operazione sono state le pietre poligonali, e ciò si spiega considerando che il loro perfetto incastro richiede che le misure degli spazi da occupare vengano determinate con grande precisione. Al contrario, per le pietre squadrate vi è una grande tolleranza, come si riscontra nella realtà per il fatto che vi è una frequentissima disuniformità di valori delle altezze. Questa è la ragione per cui solo in pochi casi le pietre squadrate hanno mostrato dimensioni utili allo scopo.

A Ollantaytambo sono stati misurati i lati inferiori di due elementi a forma di trapezio rovesciato (Figure 30 e 31), che sono risultati di 59,9 e 25,3 cm. Questi valori sono rispettivamente 39,0 e 16,5 volte il dito pelasgico (dp) di 1,536 cm.

Alla parte alta della fortezza di Ollantaytambo appartengono le misure dei lati delle Figure 32 ÷ 44, che sono state di 36,85 38,4 89,9 89,9 89,0 89,0 28,4 35,3 40,7 128,3 56,0 56,8 20,8 cm e corrispondono rispettivamente a 24,0 25,0 58,5 58,5 57,9 57,9 18,5 23,0 26,5 83,5 36,5 37,0 13,5 dp.

A Cusco, l’antica capitale Inca, sono state prese misure nel muro a cui appartiene la famosa piedra de 12 angules. Il muro, in opera poligonale, delimita un isolato di circa 50 x 40 m ed è conservato per tre lati. La sequenza delle Figure 45 ÷ 60 si snoda a partire dalla parte alta della via Hatun Rumiyoc. Per ogni immagine sono fornite le due coordinate del punto centrale del lato misurato; esse hanno come riferimento l’angolo della foto situato a sinistra in basso e vengono espresse con una sufficiente approssimazione in decimi di larghezza e altezza; è aggiunta poi la misura del lato in questione, espressa dapprima in centimetri e poi in unità pelasgiche: Figure 45 (4 2 87,6 57,0), 46 (7 3 78,0 50,78), 47 (7 2 89,9 58,5), 48 (3 4 57,6 37,5), 49 (6 2 28,0 18,23) (7 7 49,9 32,5) (2 6 69,5 45,25), 50 (7 1 61,0 39,71), 51 (8 3 68,5 45,0), 52 (3 4 55,3 36,0), 53 (5 4 67,2 43,75), 54 (6 6 66,8 43,5), 55 (7 4 86,4 56,25), 56 (5 3 28,4 18,5), 57 (4 3 97,5 63,5), 58 (5 4 24,9 16,21), 59 (7 1 54,5 35,59) e 60 (8 5 82,6 53,78) )(5 1 119,0 77,5).

Dalla fortezza di Cusco, situata nella località di Sacsayhuaman, vengono le foto riprodotte nelle Figure 61 ÷ 73. Le misure effettuate hanno dato i seguenti risultati: 202,0 238,1 63,0 32,3 80,7 98,3 158,2 54,5 71,4 55,3 89,9 79,9 e 59,9 + 63,0 cm, che corrispondono nell’ordine a 131,5 155,0 41,0 21,0 52,5 64,0 103,0 35,5 46,5 36,0 58,5 52,0 e 39,0 + 41,0 dp. Le foto sono state prese seguendo grosso modo un ordine dall’ingresso all’uscita dell’area archeologica. Le ultime due misure si riferiscono ai due lati situati alla base della stessa pietra, che si trova al centro dell’immagine. A prima vista, complessivamente, non sembrerebbe trattarsi di una lavorazione molto raffinata, ma osservando la sesta immagine si ha un’impressione diversa.

Tra le opere più evolute di questa tecnica poligonale vi è il tempio delle tre finestre di Machu Picchu, che si apre sulla plaza sagrada. Nella Figura 27 il lato inferiore della pietra che sovrasta il doppio metro misura 113,2 cm, che equivale a 73,7 dp.

Nella stessa piazzetta si apre il tempio principale, visibile nello sfondo della Figura 28. Dal retro di esso proviene la foto della Figura 74. Il lato di base del blocco misura 137,6 cm, equivalente a 89,58 dp. Sul lato sinistro è stato misurato anche il blocco della Figura 75: esso misura 131,3 cm (85,5 dp).

Alle spalle del tempio principale è collocata la cosiddetta “sacrestia”, al cui muro esterno appartiene il blocco della Figura 76, la cui base è di 78,0 cm (50,78 dp). Le Figure 77 e 78 riproducono due parti dell’interno: nella prima, la base del blocco al centro misura 62,1 cm (40,4 dp), mentre la base della pietra più piccola su cui esso in parte appoggia è di 35,3 cm (23,0 dp); nella seconda, la pietra inferiore tra le due nicchie ha un’altezza di 28,2 cm (18,4 dp), mentre le due file più in basso hanno altezze di 27,6 e 38,8 cm (18,0 e 25,26 dp).

Più a sud è presente il tempio del Sole; di esso è misurabile solo la parete esterna del muro a sudovest. In compenso esso ha un grande pregio, che lo fa denominare “muro perfetto” (Figura 79). Infatti, diversamente da quanto solitamente si riscontra in muri di questo tipo, si può constatare che almeno cinque delle sue 10 file – quelle centrali – hanno un’altezza costante. La fila più bassa è visibile interamente solo per un breve tratto a destra, dove mostra un’altezza di 28,3 cm (18,42 dp). L’altezza della seconda fila varia in modo discontinuo tra un minimo di 34,9 cm a destra e 36,5 cm a sinistra, con un massimo di 40,7 cm in mezzo. La terza fila ha un’altezza di misura variabile, con continuità, da 46,9 e 36,5 cm. La quarta fila è molto regolare, con un’altezza costante di 23,4 cm (15,23 dp). La quinta fila misura 24,9 cm a destra e 25,0 cm a sinistra (16,21 e 16,27 dp). L’altezza della sesta fila è di 21,2 cm a sinistra e 21,1 cm a destra (13,80 e 13,74 dp). L’altezza della settima fila è costantemente di 20,2 cm (13,15 dp) e quella dell’ottava di 19,6 cm (12,76 dp). Per la nona fila, a causa della sua posizione, ho potuto misurare solo la parte per me raggiungibile, a sinistra, pari a 17,7 cm (11,52 dp). La misura della settima fila, l’unica trovata con l’approssimazione a un quarto di dito pelasgico, fa pensare che la riga usata per le misurazioni avesse incisioni secondarie a metà e a un quarto dell’unità di base e che misure approssimate a un ottavo venissero fatte per stima. D’altronde solo un artigiano che sapesse lavorare con grande precisione, come è il caso di chi ha eseguito questo “muro perfetto” poteva ricorrere a una valutazione del genere. È probabile che la precisione usata per questo muro sia legata alle dimensioni dei suoi elementi, che sono modeste rispetto a quelli di altre opere.

Figure 80

Non tutte le opere però sono rifinite con la precisione osservata nel muro perfetto di Machu Picchu. Ad esempio, a Pisac le costruzioni della cittadina fortificata sono state erette con questa tecnica (Figura 80), ma l’altezza degli elementi squadrati non è curata in modo da potervi riscontrare che essa sia multipla del dito pelasgico. Questo si avverte anche nel centro di Cusco, dove abbondano muri di questo tipo, che a prima vista sembrano perfetti ma poi ci si accorge che le altezze dei filari non sono uniformi. Anche nel famoso Koricancha non si trovano dimensioni degli elementi che consentano di verificare facilmente se veniva utilizzato il dito pelasgico.

Per trovare ancora una lavorazione accurata occorre spostarsi più a sud, a Sillustani. Il luogo è noto per la presenza di diverse chullpas, torri funerarie, costruite principalmente con pietre squadrate. Nella Figura 81 è rappresentata la parte inferiore di una torre originale, relativamente ben conservata, non restaurata come la gemella accanto, visibile nella Figura 4. L’accesso è molto piccolo (Figura 82), e da qui, verso destra, sono state misurate le altezze delle 14 pietre che formano il secondo filare. Il filo superiore è molto regolare e continuo; solo a metà dell’elemento n. 8, dalla parte opposta rispetto all’entrata, è presente un evidente gradino (Figura 83); questo suggerisce che il filare è stato iniziato sopra l’entrata e si è proceduto a estenderlo contemporaneamente dalle due parti. Il filare inferiore è meno regolare, probabilmente perché le pietre più in basso hanno dovuto adattarsi a una fondazione non perfetta: la Figura 84 mostra uno dei gradini presenti, collocato tra il 4° e il 5° elemento. Nella stessa figura si può osservare un particolare che indica l’accuratezza con cui sono state lavorate le pietre in cava: sui due blocchi centrali e su quelli più in alto sono visibili alcune “fiamme” di colore arancio che sono continue tra i quattro blocchi. In basso a sinistra sono visibili i segni della percussione di una punta.

Qui di seguito riporto le misure effettuate (in centimetri) presso i margini sinistro e destro di ciascuno dei 14 elementi e, tra parentesi, i corrispondenti valori, espressi in dita pelasgiche. Il segno / indica mancanza di misura dovuta alla eccessiva variabilità dell’altezza. 1: 67,6 (44,0) – 67,6 (44,0); 2: 89,1 (58,0) – 88,4 (57,55); 3: 88,4 (57,55) – 87,5 (57,0); 4: 87,5 (57,0) – /; 5: 92,1 (60,0) – 92,2 (60,0); 6: 92,1 (60,0) – 92,2 (60,0); 7: 92,2 (60,0) – 88,3 (57,5); 8: 88,3 (57,5) – 85,3 (55,5); 9: 84,9 (55,27) – /; 10: / – 89,8 (58,5); 11: 90,6 (59,0) – 94,1 (61,26); 12: 94,1 (61,26) – 95,2 (62,0); 13: 95,2 (62,0) – 93,7 (61,0); 14: 93,7 (61,0) – 93,3 (60,74). Si può notare che 15 valori su 25 sono multipli interi dell’unità pelasgica e che 4 misure sono state effettuate ricorrendo a ¼ di unità.

Restando nell’ambito delle opere in pietra squadrata e spostandoci a Tiwanaku, in Bolivia, possiamo osservare che qui la tecnica di taglio è più sofisticata e – possiamo dire – più evoluta. Sorprende la levigatezza delle superfici tagliate a specchio come quella della Figura 85 oppure la perfezione del solco longitudinale delle Figure 86 e 87 e quella con cui sono stati ottenuti fori di 4,6 mm di diametro ogni 35-36 mm lungo tale solco e profondi 10 mm. Troviamo prove che ancora è il dito pelasgico l’unità di misura adottata: nella Figura 88 è mostrato ciò che resta di una delle varie porte che si trovano in questo sito, che potevano essere ricavate in un solo blocco di pietra. Le fasce a diverso rilievo sono larghe 15,8 14,2-14,3 12,6-12,7 11,7 cm. La larghezza delle stesse fasce – con esclusione della prima – diventano, dopo la doppia angolatura, 14,2-14,3 12,7 25,0 cm. Questi valori corrispondono a 10,29 9,24-9,31 8,20-8,27 7,62 16,28 dp. Anche in questo caso, come a Machu Picchu, possiamo notare che sono frequenti le misure approssimate a ¼ dp.

Nella Figura 89 è illustrata l’architrave di un’altra porta. Essa si è salvata dalla stoltezza degli imprenditori che hanno costruito la ferrovia La Paz-Guaqui attraverso l’area archeologica di Tiwanaku e si sono accaniti sui pezzi di maggiore dimensione per ridurli in frammenti con l’aiuto della dinamite e disporli come ballast sotto le traversine dei binari. Si è salvata perché, quando sono stati praticati due fori da 50 mm per disporvi le cariche esplosive, le vibrazioni delle perforazioni, per fortuna, hanno spaccato la roccia in tre pezzi (Figura 90), rendendo impossibile l’applicazione delle cariche. Le fasce longitudinali dell’architrave hanno larghezza di 26,0 15,4 ÷ 15,5 14,2 ÷ 14,4, 12,9 ÷ 13,0 11,5 e 9,6 cm, corrispondenti a 16,9 10,0 ÷ 10,1 9,24 ÷ 9,37 8,4 ÷ 8,5 7,5 e 6,25 dp. Anche qui dunque constatiamo che le misure sono state fatte approssimando fino al quarto della loro unità di misura.

Tiwanaku doveva essere incomparabilmente più ricca di oggi, come possiamo inferire dalle descrizioni che ne hanno fatto alcuni scrittori spagnoli, come Pedro Cieza de Leon, che fu il primo a visitare questo sito nel 1549, descrivendolo nella sua Cronaca del Perù, del 1553, come una città non molto grande ma formata da edifici in pietra memorabili, circondati da mura ciclopiche. In uno di questi edifici “vi è una sala lunga 14 m, larga sette, con grandi porte e molte finestre”. Un altro scrittore, Jimenes de la Espada, descrive “un palazzo che è l’ottava meraviglia del mondo, con pietre lunghe 11 metri e larghe cinque, lavorate in modo da incastrarsi l’una nell’altra senza vederne la connessione”.

Figure 4Figure 4

Possiamo avere un’idea di tali incastri osservando la precisione con cui sono state ricavate le superfici della Figura 91. Effettivamente tutto fa pensare che le costruzioni venissero assemblate con incastri fatti alla perfezione. Alcuni moduli più determinanti venivano tenuti legati con grappe di bronzo, di cui nella massima parte dei casi è rimasto unicamente il solco (Figura 92).

Misure di angoli. Nelle opere eseguite in pietra a contorno poligonale sono stati misurati alcuni angoli, dove – con un criterio di scelta analogo a quello usato per le misure dei lati – è sembrato evidente che essi fossero stati sagomati per ricevere un nuovo elemento del muro. Lo scopo era di confrontare le misure con quelle effettuate sulle mura pelasgiche d’Italia e Grecia, ricordando che queste ultime misure avevano rivelato una suddivisione sessagesimale e non nonagesimale dell’angolo retto.

La determinazione dell’ampiezza degli angoli si è rivelata di una qualche difficoltà, dovuta al fatto che spesso i lati si presentano costituiti non da un solo segmento rettilineo ma da due o tre segmenti, dando così erroneamente l’impressione che i lati siano curvi anziché delle linee spezzate. I valori degli angoli sono stati stabiliti su fotografie prese disponendo l’obiettivo davanti al vertice d’interesse per minimizzare l’errore di parallasse.

Dalla fortezza di Ollantaytambo vengono le immagini delle Figure 93 e 94, da cui sono stati ricavati i valori angolari di 97 e 93°. A Sachsywaman si riferiscono le Figure 95 e 96, con angoli rispettivamente di 95 e 107°. Di Cusco sono infine le Figure 97 ÷ 101; gli angoli ottenuti sono risultati, nella successione, di 92 91,5 91 92 e 85,5°. Dopo avere trovato che le lunghezze dei lati sono multiple, come nel Mediterraneo, della stessa unità di misura di 1,536 cm, ci si sarebbe potuto aspettare che anche per gli angoli si trovasse la stessa unità di 1,5°. Invece i valori determinati sembrano essere multipli di 1°. Per dissipare il dubbio che ciò possa dipendere da errori compiuti operativamente nelle misurazioni, che sono approssimate a 0,5°, può essere utile analizzare più in dettaglio la Figura 101. L’angolo in questione appartiene alla pietra al centro della fotografia e precisamente è quello in basso a destra; ciascuno dei lati interessati è formato da due tratti con direzione leggermente diversa. Se misuriamo l’angolo formato dai due tratti più prossimi al vertice, otteniamo 85,5°. Se invece utilizziamo i tratti più lontani, l’apertura è di 84,5°. Se infine ci serviamo di un tratto prossimo e di uno lontano, abbiamo in entrambi i casi 85°. Ne inferiamo che in ognuno dei lati i due tratti diversamente orientati sono deviati l’uno rispetto all’altro di 0,5° (ovvero la differenza tra 84,5 e 85°), che possiamo considerare come la metà dell’unità che veniva utilizzata.

Table 1

Le porte. Questo argomento ci dà l’occasione di verificare il valore dell’unità utilizzata per la misura degli angoli. Gli stipiti delle porte legate ai muri che stiamo studiando infatti non sono verticali ma a forma di trapezio, come quella di Ollantaytambo di Figura 102. La forma può essere stata dettata dalla situazione costruttiva precedente. Non ne troviamo tracce nelle mura più antiche perché sicuramente esse erano interamente di legno, data la grande difficoltà di sgrezzare le pietre prima dell’invenzione del bronzo. Possiamo arguire che gli stipiti dovessero essere inclinati per la necessità di contrastare la spinta laterale delle pietre entro cui era ricavato il varco della porta, essendo gli elementi costituiti da pietre appena sgrezzate e quindi in qualche misura spingenti, come si può inferire osservando la foto della Figura 103, ripresa in un quartiere di Ollantaytambo. Porte con forma analoga si trovano a Cerveteri (Figura 104). Di queste porte a forma di trapezio l’inclinazione degli stipiti è stata determinata misurando l’altezza e le due basi. Nella Tabella 1 abbiamo nella prima metà i dati di alcune porte delle tombe a dado appartenenti alla necropoli della Banditaccia di Cerveteri (VI secolo aC). Nella seconda metà abbiamo dati relativi alle porte misurate in Perù. Questi dati sono ordinati per inclinazione degli stipiti crescente. Nelle varie colonne figurano l’altezza H, la base minore Bs e quella maggiore Bi, il rapporto R tra la semidifferenza delle basi e l’altezza e infine I l’inclinazione.

Per quanto riguarda la regione sudamericana, la maggior parte delle porte della tabella è rappresentata nelle Figure 105 ÷ 113; il numero delle figure compare nella seconda colonna. La porta della figura 105 appartiene all’isolato di Cusco contornato dal muro poligonale ed è la meglio conservata. Nella seconda metà della tabella i numeri 2, 7 e 12 si riferiscono a Pisac, i numeri 3, 5, 6, 8, 9 e 10 ad Ollantaytambo, i numeri 4 e 11 a Machu Picchu.

Per terminare la rassegna delle porte osservate non possiamo passare sotto silenzio la porta della fortezza di Sachsyhuaman, alta circa 2,9 m e con una inclinazione degli stipiti di circa 3°, determinati dalla foto di Figura 114.

Dal confronto dei dati della tabella sembra dunque confermato che in Sudamerica venissero usati i gradi come li usiamo noi oggi. Anche se il test non è esaustivo (i dati della tabella sono pochi), sembra però che l’inclinazione degli stipiti delle porte tendesse ad essere intorno ai valori di 2,0 2,5 e 3,0°, con una preferenza per il valore di 2,5°.

Figure 115

Per quel che riguarda i dati di Cerveteri, sembra che anche qui vi sia una qualche concentrazione intorno al valore di 2,5°, che farebbe supporre che gli Etruschi avessero adottato anch’essi il grado trovato sulle Ande. Si è cercato di fugare i leciti dubbi misurando gli angoli di un muro poligonale appartenente ad una delle più antiche tombe a tumulo, del VII secolo aC, nella stessa necropoli della Banditaccia in cui si sono misurate le dimensioni delle porte. Le condizioni non sono molto adatte per un’operazione del genere perché le pietre, costituite dal locale “tufo rosso a scorie nere”, non presentano facilmente spigoli ben conservati. Tuttavia, tra i dati ottenuti, viene presentata qui la misura dell’angolo di 91° ottenuta dalla foto della Figura 115, che suggerisce con qualche probabilità che già nel VII secolo aC nella nostra penisola fosse stato adottato il sistema che è in uso al giorno d’oggi.

Conclusioni

Nelle Ande centrali e nell’area mediterranea si trova la stessa successione di tecniche costruttive megalitiche, con le tre modalità della pietra appena sgrezzata con strumenti litici, poi delle pietre con facce poligonali perfettamente incastrate, che hanno necessitato di strumenti metallici per la loro sagomatura, e infine di pietre squadrate, lavorate a taglio.

Determinante per stabilire che non si tratta di una pura coincidenza è stato l’avere stabilito che la lavorazione delle pietre poligonali e squadrate è stata governata dall’esecuzione di misure in cui veniva utilizzata la stessa unità, di 1,536 cm.

Passando ad esaminare le differenze, è stato constatato con sorpresa, anche se ci sarebbe bisogno di conferme, che, per la misurazione degli angoli, nella regione andina sembra essere stata seguita una suddivisione nonagesimale dell’angolo retto mentre in quella mediterranea si è seguita certamente una suddivisione sessagesimale.

Riguardo alle differenze tra le due aree è stata sottolineata l’evoluzione delle opere in pietra poligonale riscontrata in Sudamerica in quanto che tali opere mostrano non solo una chiara derivazione da quelle eseguite con pietre appena sgrezzate ma anche una transizione alle opere compiute con la tecnica delle pietre squadrate. Una tale evoluzione non si osserva nella regione del Mediterraneo, nonostante che qui le pietre utilizzate, perlopiù di natura calcarea, fossero più favorevoli alla sperimentazione di altre modalità di lavorazione.

In definitiva si può dire che nelle Ande centrali, e specificatamente in Perù, si sono succedute tre invenzioni rivoluzionarie. La prima è consistita nella metallurgia del bronzo, testimoniata a Machu Picchu dalla lavorazione più incisiva delle pietre nei muri in pietra sgrezzata più evoluti, dato che questa poteva ottenersi soltanto con l’uso di un martello e una punta metallica.

La seconda invenzione è quella delle misurazioni lineari. Il possesso di un metallo rigido come il bronzo ha consentito di ideare un regolo campione con un certo numero di incisioni a distanza prestabilita e di riprodurlo in copia perché potessero usufruirne contemporaneamente vari operatori. Si tratta di una grande innovazione perché fino a quel momento misure in un certo senso precise erano riservate alla dimensione del tempo. Per lo spazio vi poteva essere una determinazione delle piccole lunghezze per mezzo di un riporto estemporaneo di un campione a perdere, mentre per le maggiori lunghezze quasi sicuramente si faceva riferimento al tempo, espresso in giorni o frazioni di giorno, impiegato a percorrere un determinato cammino. Discorso analogo si può fare per la determinazione dell’ampiezza degli angoli, che molto probabilmente per la prima volta è stata fatta con precisione.

La terza rivoluzione è stata l’invenzione di strumenti per il taglio delle pietre, i quali potevano essere seghe e fili elicoidali. In questo modo si riduceva molto lo sfrido nella lavorazione in cava e si potevano ottenere più facilmente blocchi di grandi dimensioni.

Lavori citati

Caviasca M. (2007). L’evoluzione delle tipologie e la natura costruttiva.docenti.polimi.it/caviasca/caviasca/lez4.pdf.

Mortari R. (2012a). 2012 – Dalla profezia maya alle previsioni della scienza. www.prevederecatastrofi.it , 85 pp.

Mortari R. (2012b). Confronto tra mura poligonali d’Italia e Grecia. www.terradegliuomini.com.

Polito E. (2011). a cura di. Guida alle mura poligonali della provincia di Frosinone. Provincia di Frosinone. 96 pp.